Narrare errando, errare narrando

natale errante

Se dovessi raccontare che cos’è la magia del Natale per me, partirei col ricordare il momento in cui tornando a casa dopo la messa di mezzanotte comparivano i regali nei luoghi più improbabili, dove prima non c’erano. Ricorderei in realtà ancora prima, quando con intensa cura mi mettevo a scrivere la letterina contenente la lista dei miei desideri, sempre accompagnata da disegni e vignette; perché il sogno più grande per me era incontrare Gesù bambino che scendeva dal camino. Certo anche Babbo Natale, ma diciamo che per me entrambi si alternavano con la consegna dei pacchetti e da sempre ho voluto immaginare i loro dialoghi, i loro volti e i loro sorrisi.

Il sorriso di quegli anni di infanzia lo ricordo assai bene. Mi ha accompagnato fino a quando ho potuto credere e aver fede in quella magia. Purtroppo però la magia si scontra inevitabilmente con la realtà.

Sono giunta all’età dei 30 anni a riscoprire un po’ della magia, inevitabilmente diversa ma preziosa. Dopo quei ricordi meravigliosi da bambina, ho smesso di vivere la gioia del Natale. Anzi ho sempre provato profonda solitudine. Tuttavia non quest’anno. Ho cominciato un anno fa a far pace con certe mie fratture interiori e ho cercato di riscoprire la voglia dell’incontro, ho ritrovato il sorriso attraverso la magia dei racconti degli altri.

In questo ultimo periodo ho avuto la fortuna di conoscere profondi racconti trascritti da bambini, bambine, ragazzi e ragazze; sono stata anche protagonista osservativa in ascolto di narrazioni create assieme ad alcuni miei stimoli e attraverso la ricerca di nuovi racconti a partire da altri già scritti.

Ho avuto la fortuna di conoscere il vero sentire di adolescenti che sanno ancora meravigliarsi se solo ti fermi ad ascoltarli. Non a sentirli, ma a prestar loro attenzione.

Certo, entrare in contatto con le proprie emozioni sembra sempre più difficile, ma se offri occasioni ed opportunità giuste, a loro misura, sanno perlustrare la sofferenza profonda che li abita, sanno ancora andare alla ricerca del ranocchio scomparso che è finito nella bocca del serpente; oppure sanno ancora credere in obiettivi talvolta più grandi di loro… ma cosa sono i desideri se non l’arte di sognare in grande?

I loro volti, i loro pensieri e i loro scritti mi hanno fatto ancora sentire la speranza. Una speranza che non credevo più di provare. Incroci i loro sguardi e percepisci la loro confusione, la loro paura per un futuro indefinito, scarso di relazioni autentiche e di conseguente solitudine.

Tuttavia dobbiamo far sentire loro questa speranza, perché solo se crediamo in loro possiamo cambiare il destino di tutti, che al giorno d’oggi sembra già scritto: guerre, crisi economica e lavorativa, cambiamenti repentini e forme d’amore violente che scacciano via i valori.

Ancora una volta dipende dalla narrazione che vogliamo ascoltare e che riusciamo a leggere. Sono le parole a fare la differenza, perché sono queste a distruggere o unire. Come nella malattia cronica: se si pensa al cancro come a un nemico da sconfiggere, nel caso in cui tu non risulti abbastanza forte da vincere la battaglia, risulti uno sconfitto. Se invece il cancro è paragonato a un vulcano in eruzione puoi renderti conto che gran poco dipende da te ed è in tuo potere. E questo ti farà sentire meno inadeguato.

Certo la malattia resta quella, con le stesse caratteristiche e la stessa sintomatologia, ma tu puoi tentare di accoglierla per ciò che è, e forse affrontarla con meno sensi di colpa.

Ecco allora che lo scopo della letterature e delle arti emerge nitidamente: non serve alcuna grande rivoluzione, semmai serve cambiare narrazione, cambiare poesia, voltare pagina e usare le parole di verità. Quelle parole che raccontano di magia, di doni e di cura verso l’altro.

Il Natale che vorrei è quello fatto di una certa comunicazione, la quale costituisce una sorta di parola-valigia che entra in ogni forma di discorso o di vita, ma, più profondamente, alla radice, essa significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. La comunicazione può raggiungere dunque il senso di essere sinonimo di cura, cura di se stessi e degli altri, come un prendersi cura del proprio corpo e del proprio spirito, in quanto essenza umana che cresce, si forma, cambia e si realizza al meglio durante la propria vita. E non la comunicazione filtrata da schermi e opinioni frammentate che offendono e che ci fanno miscredere nell’esistenza dei valori. Questi cambiano e si evolvono di generazione in generazione. Non è il cambiamento il problema, semmai la perdita della capacità di saperli guardare e interpretare fra le righe dei silenzi che risuonano.

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