Ogni articolo che scrivo parte da un aspetto di cui da un lato ho fatto esperienza e dall’altro che ha a che fare con il mio operato professionale. Ho lavorato 6 anni in ospedale dove ho incontrato i LEA, ossia i livelli essenziali di assistenza in ambito clinico-sanitario. In seguito ho incontrato i LEPS, livelli essenziali di prestazione sociale. Questi ultimi riguardano l’ambito di intervento sociale per tutte quelle situazioni di vulnerabilità e fragilità multiple a partire da una condizione di esclusione sociale.
In Italia questi strumenti permettono di tutelare i diritti di ogni cittadino, da un punto di vista di cure e terapie, ma soprattutto da un punto di vista della vita in tutte le sue esigenze e criticità comunitarie, politiche, familiari, relazionali, eccetera. Tuttavia questi tentativi risultano ancora in una forma parziale di vera cura nei termini del concetto inglese care. Anche perché molto spesso i LEPS si trasformano in LEA a causa di lunghe liste d’attesa, scarso personale negli ambiti di cura e assistenza, rinunciando al lavoro di prevenzione che risulta essere fondamentale per il compito della medicina e del sociale, raggiungendo le fragilità in anticipo, prima del sintomo, accompagnando educativamente non a uno stato di salute, bensì a una condizione di benessere. Bisogna quindi accogliere il rischio, attivando un percorso di protezione e facendo educazione a tutti i livelli esistenziali degli individui e della comunità, in un’ottica contraria alla forma paternalistica dell’assistenza. Facendo perciò incontrare il sociale con l’ambiente medico, che così lontani non sono e soprattutto si toccano nel loro compito pedagogico di accompagnare le persone in ogni fase della vita: nascita, crescita, sviluppo cognitivo, affettività, sessualità, malattia, riabilitazione, vecchiaia, morte. Accompagnare, ossia attivare risorse senza sostituirsi all’altro, semmai rendendolo partecipe e consapevole del suo percorso di fioritura.
Anche in tal caso pur apparendo scontato e obbligato, è necessario l’intervento di una figura che risulti da intermediaria tra i due mondi che si toccano e che faticano a riconoscersi, pur essendo parte di un ecosistema umano fondamentale che influenza reciprocamente ogni elemento che ne fa parte.
Questo incontro necessario oltretutto può verificarsi anche in un luogo significativo, il quale già in passato aveva accolto in forme differenti gli stessi ruoli e le medesime discipline: la piazza. Questo luogo sin dalla notte dei tempi è caratterizzato da incontri possibili ed educativamente significativi.
Un itinerario di antropologia da strada: dalle piazze alle biblioteche
Questo fine settimana sono stata in visita al Museo Storico della Giostra e dello Spettacolo Popolare nel paese di Bergantino in provincia di Rovigo. Tale luogo è un centro di ricerca e di documentazione unico nel suo genere in Italia, che si occupa del complesso e variegato mondo dello spettacolo popolare di piazza: dalla Fiera mercantile medievale al Parco divertimenti dell’Ottocento con i suoi tradizionali spettacoli itineranti (il Teatro delle maschere, dei burattini e delle marionette, il Circo, il cinematografo ambulante, le prime giostre dalle origini rituali) fino al Luna Park ipertecnologico di oggi con le sue vertiginose attrazioni; un contenitore di giochi e spettacoli dalle origini antiche, addirittura ancestrali.
Il visitatore entra qui in un Museo non statico, ma vivo e altamente interattivo, un Museo che parla, che suona, dove è consentito girare le manovelle degli strumenti meccanici.
Ancora una volta mi sono scontrata con l’interrogativo che pone Karen Blixen nella sua novella. A posteriori mi stupisco di come stia riprendendo il filo di tutte le mie azioni e scelte di vita. Alla scuola superiore, appassionata di circo, avevo concluso gli anni con una tesi proprio operando un approfondimento sull’arte circense. Oggi la rincontro e mi si apre allo sguardo di una nuova rilettura.
I suonatori ambulanti e gli artisti di strada raccontavano la realtà, prescrivevano speranza attraverso una risata, tramite cialtronerie: regalavano cura sociale e conoscenza del mondo attraverso rappresentazioni teatrali di storie, unendo la finzione con il reale. Tutto ancora una volta parte dal narrare e, qualsiasi sia la forma, le storie curano, accompagnano, fanno conoscere chi siamo e il mondo di cui facciamo parte. La medicina del divertimento promossa attraverso maschere rappresentative del mondo come si poteva conoscere all’epoca, senza l’intervento del giudizio, semmai dell’ironia che permette di mandare giù più facilmente la pillola.
La prescrizione sociale nei musei e il ruolo del bibliotecario biomedico
La guida dell’OMS chiarisce in cosa consista e da dove origini l’utilizzo della prescrizione sociale: si tratta di un mezzo che, basandosi sulle prove scientifiche relative all’impatto dei fattori socioeconomici sulla salute e sull’ipotesi che affrontare i determinanti sociali sia cruciale per migliorare gli esiti di salute, permette ai professionisti sanitari di ricorrere a servizi e risorse non cliniche della comunità a vantaggio del benessere dei pazienti e di tutti i cittadini.
In tal senso i musei divengono i magici contenitori a cui la medicina può nuovamente come in passato rivolgersi per promuovere conoscenza e benessere.
Un percorso classico di prescrizione sociale prevede che il professionista sanitario delle cure primarie, accertata la necessità del proprio paziente di avvalersi di questo approccio, lo indirizzi a un operatore di collegamento (link worker) fra il servizio sanitario e i servizi presenti nella comunità. L’operatore di collegamento lavora con il paziente per sviluppare un piano di benessere personalizzato e appropriato ai suoi bisogni, rispondente alle sue necessità e aspirazioni. L’operatore di collegamento invia quindi il paziente a uno specifico servizio della comunità.
L’operatore di collegamento non può che essere un professionista che già incontra i due mondi uniti, quello scientifico della medicina e quello sociale della bibliografia e dei musei come luoghi di ricerca, ma anche luoghi di scoperta e dialogo con il mondo esterno. Questa volta parlo del bibliotecario biomedico, un ruolo poco conosciuto ai più, ma che è rappresentativo di ciò che ho voluto descrivere poc’anzi.
Il bibliotecario biomedico unisce la piazza con le storie, i musei con la medicina e motiva l’esistenza della prescrizione sociale come completamento e miglioramento dei LEA e dei LEPS, in un’ottica di autentica inclusione e attivazione comunitaria.
Il bibliotecario biomedico si occupa di una serie di attività legate all’universo della ricerca scientifica: è in grado di orientare gli utenti tra le numerose banche dati dedicate alla medicina, costruendo stringhe di ricerca efficaci e che permettono di reperire lo stato dell’arte della letteratura scientifica. Il bibliotecario biomedico può essere promotore di progetti dedicati alla medicina narrativa ed organizzare attività nel contesto dello sviluppo di piani dedicati al patient empowerment; può anche prendere parte a gruppi multidisciplinari, fornendo un punto di vista originale sulla metodologia d’intervento basata sulle storie di cura. Infine, può avere un ruolo attivo nella promozione di approcci basati sulla lettura e sull’informazione di qualità, come la biblioterapia e la cosiddetta “prescrizione dell’informazione”.
Il bibliotecario biomedico è quel professionista che se vogliamo ai tempi dei suonatori ambulanti veniva rivestito dagli artisti di strada: ancora una volta dunque è assodato che la cultura cura; le storie costituiscono il nostro arcaico istinto di narrare e l’arte – in tutte le sue forme: teatro, pittura, libri, musica, … – ne è la più elevata espressione.
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