La narrazione come “medicina sociale”

luoghi di cura

Congresso Nazionale SIMA, Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza

Venerdì scorso, 6 ottobre, ho partecipato al Congresso della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza. Sono stata invitata a parlare per presentare la passata e prima edizione del Progetto “Con Ali di Carta. La narrazione che cura”. Stiamo infatti lavorando alla seconda edizione che continuerà ad essere sostenuta dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona con tante novità.

Il convegno, benché fosse organizzato da medici per medici, in realtà ha coinvolto varie figure della cura e per la prima volta, in maniera così decisiva, si sono affrontati vari aspetti che vanno oltre il solo ambito clinico. Si è parlato dei disturbi alimentari, dello sport come terapia, di come la medicina dovrebbero varcare la soglia dell’ambiente scolastico per chiedersi quali specialisti hanno il dovere e il compiti di prendersi cura di quei pazienti che affrontano la fase dell’adolescenza, caratterizzata da luci e ombre, più che in altre fasi dello sviluppo, soprattutto in questa società odierna.

Ci sono stati interventi veramente stimolanti, di iniziative a favore e nelle scuole oppure in ambiente sportivo come elemento di terapia non solo fisica, ma soprattutto psicologica ed emotiva.

Precedentemente mi sono chiesta come gli attuali adolescenti siano così diversi e come gli adulti non riescano più a comunicare. Anche in tale contesto si è aperta questa riflessione e ho trovato molte più risposte dialogando con figure mediche specialistiche che in altri professionisti.

Questo momento è stato per me significativo, anche per comprendere che ruolo possa avere la mia figura e la medicina narrativa ai tavoli scientifici. Ho recuperato nuovo entusiasmo per reinventarmi e ricrearmi ancora una volta.

Prevenzione ed educazione: il linguaggio pedagogico nella medicina

Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. La scuola […] è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico. E allora il mastro deve essere per quanto può, profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo la chiave, non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo.

Don Lorenzo Milani

In linea con questa esperienza, sto lavorando da qualche mese a varie collaborazioni e più di una volta mi torna fra le mani il concetto di pedagogia in ambito medico, in tutte le sue forme, e di come i luoghi di cura non hanno più un confine così netto. La medicina necessita di uscire dagli ambulatori per andare appunto ad incontrare le scuole, le palestre e avere una voce politica completamente rinnovata e volta al benessere olistico e polidisciplinare. La multidisciplinarietà è già sorpassata perché non permette quella presa in carico completa e complessa, che rispecchia la complessità umana. Tutto questo soprattutto risulta urgente in ambito pediatrico e adolescenziale, anche per quei ragazzi o quelle ragazze che non sono ancora malati, ma si nascondono in stati di abbandono relazionale che sfociano poi in disturbi legati all’alimentazione errata o al cyberbullismo, o cose anche peggiori.

Cura fa rima con lettura e anche con scrittura.

L’aspetto preventivo della medicina è da sempre già legato alla dimensione educativa intesa come trasmissione di informazioni che promuovano conoscenza e consapevolezza, oltre che formativa e performativa della persona come essere umano completo e molteplice.

Una persona racconta qualcosa a qualcun altro, che ci trova un senso e reagisce di conseguenza, a seconda della sua personalità, delle sue capacità di assimilazione, della sua accuratezza interpretativa, del suo bagaglio di narrazioni. Il destino di una storia è legato anche alla persona che la riceve.

Nella clinica si deve contemplare la relazione tra chi racconta e chi ascolta, considerando però la narrazione alla stregua di un partner dinamico, capace di trasformare tale legame. Ed è proprio di questo che si ha bisogno.

Le parole che usiamo devono rappresentarci, essere espressione della nostra persona e per poterlo fare è necessario che siano ‘cercate’, ‘sentite’ e non svuotate di significato nell’anonima fretta del ‘dire’ nel bisogno dell’apparire, nella prepotente voglia di autorealizzazione, lontana da una consapevolezza autentica di sé.

Biblioterapia nei luoghi di cura e incontri sulla comunicazione in MdA Neonato Fisiologico e GA Lactarium

Come può allora la biblioterapia inserirsi in tutti questi spazi? Ma soprattutto quali e quanti luoghi di cura?

Il 17 ottobre sarà un giorno in cui sia online che in presenza mi rivolgerò a vari professionisti che operano in ambito di cura nei primissimi mesi di vita. Mi sono resa conto che dobbiamo considerare anche le piazze luoghi in cui promuovere la cura: ogni spazio che implica la relazione è ambito di terapia (dal verbo therapeyo, il quale ha il significato principale di assistere, stare accanto, interessarsi, preoccuparsi, prendersi cura della sfera più vulnerabile della persona).

Avanzerò dunque questa riflessione per comprendere attraverso i gruppi di lavoro quale possa essere il futuro per le nostre generazione e di come l’utilizzo dei libri e delle narrazioni ancora una volta può essere lo strumento che promuove “integrazione”.

Posso quasi azzardare a parlare di una biblioterapia integrativa o ad approccio integrato, la quale può aprire quel dialogo che le discipline da sole faticano ancora ad attuare. Come fare? Utilizzando quello che la biblioterapia ci insegna: c’è nella finzione narrativa un paradosso che Aristotele fu il primo a rilevare nella Poetica. Siamo conquistati dalla finzione perché ci dà piacere. Ma la maggior parte di ciò che è contenuto nella finzione è di fatto spiacevole.

La tragedia greca costituisce il proprio senso a partire dal momento dello sparagmos, ovvero dal sacrificio dell’eroe, ma poiché non veniva rappresentato il momento tragico della morte, l’evento veniva sempre narrato dall’anghelos – il messagero – di modo che lo spettatore potesse seguire gli avvenimenti senza dare adito all’eccedere del coinvolgimento emotivo, del pathos.

Questa parte dell’esibizione viene chiamata katharsis ton pathematon, in quanto attraverso il mezzo narrativo incarnato dall’espediente del messaggero, consentiva una purificazione delle passioni, in particolare della compassione e del timore.

Lo scopo della tragedia non è che il pubblico capisca razionalmente quello che viene narrato, ma che venga dato spazio alla mimesis, la quale non è solo imitazione, ma anche immedesimazione.  

Dunque, attraverso l’immedesimazione nei panni dell’eroe, lo spettatore segue l’intera vicenda la cui narrazione è strutturata in modo tale da sfociare nell’acme tragica attraverso l’imprevisto e il capovolgimento. In altri termini, la logica stessa del racconto prevede l’intera peripezia al fine della purificazione, obiettivo principale della tragedia. 

Il significato profondo di questa rappresentazione è il piacere inteso come attività, energheia, in quanto Aristotele intende definire la tragedia come ‘imitazione di azioni serie’. Il piacere che ne deriva è quindi legato a questa forma, ovvero il racconto di queste azioni serie, e l’effetto che dipende dalla costruzione del racconto è la catarsi. Quest’ultima è garantita solo ed esclusivamente se avviene l’identificazione tra spettatore e protagonista: nel personaggio tragico lo spettatore rivede un’immagine di sé, ma più saggia e più virtuosa, che gli suscita una tensione all’imitazione, ma anche all’immedesimazione e così facendo da libero sfogo a queste passioni e se ne libera.

Il racconto diviene dunque medicina sociale; in questo sta la vera forza della tragedia.

Con il contributo della studentessa Giorgia Giustinelli e la sua tesi sull’autobiografia come forma di emancipazione e cura sociale.

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