Nei miei anni di formazione ed esperienza lavorativa ho riflettuto molto sulla definizione da dare al contenitore del mio operato. Già il fatto che oggi parli di contenitore è significativo, perché questa evoluzione è assai recente. Agli inizi volevo a tutti i costi forzare un metodo, che rispondeva più a un bisogno di mia personale catalogazione: sono filosofa o biblioterapista? Direi che sono entrambe, ma anche molto di più. Quello che oggi sento di poter esprimere è una postura, la cui interpretazione parte dalla filosofia e dalla narrazione che si incontrano come due pietre focaie.
Sin dagli inizi e ancora tutt’oggi mi definisco “filosofa della narrazione”, anche se in molti mi definiscono più frequentemente “filosofa della comunicazione”. E non posso offendermi, anche perché di base sono laureata in comunicazione e ho intrapreso un iniziale percorso di filosofia del linguaggio che ancora oggi è molto presente nei miei laboratori e nelle mie formazioni, e sono inoltre anche counselor.
Le parole in generale mi piacciono, sono fondamento della mia ricerca, e senza di esse non esisterebbe un qualsiasi tipo di linguaggio, non ci sarebbero narrazioni e non ci sarebbe nemmeno la comunicazione di queste (e la comunicazione in generale). La parola “comunicazione” è ormai abusata, contaminata, fraintesa; tuttavia Eugenio Borgna, nel suo Parlarsi, ci regala una definizione a cui io mi sento molto legata:
Che cosa è questa parola ambivalente, «comunicazione», questa parola-valigia che entra in gioco in ogni forma di discorso e in ogni forma di vita? Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. Nella convinzione che «comunicazione» sia sinonimo di cura.
Comunicazione esprime un agire fatto o promosso da una comunione di intenti, una condivisione nell’azione verbale delle persone in dialogo. Per Borgna quest’azione di comunità dialogante è sinonimo di cura.
Ecco che – per tornare alla mia postura – non posso altro dire che in questa sua espressione mi riconosco e mi appartiene. Tuttavia ho sempre continuato a scegliere di definirmi filosofa della narrazione, e solo per alcuni amici sono anche e soprattutto filosofa della comunicazione. Tutte queste sfumature appartengono alla mia anima e alla mia formazione, tant’è che l’ultimo modulo delle lezioni che tengo al Master I livello di Biblioterapia lo intitolo “Filosofia del linguaggio e filosofia della comunicazione”. Ovviamente per me indica degli argomenti ben precisi da trattare ai miei studenti, solo che ultimamente questa titolazione o definizione, come preferite, mi frulla nella mente. Perché lo sappiamo e l’ho ribadito più volte, le parole esprimono il nostro mondo. Questo mio mondo, che sto creando a partire dalle mie forze e dai miei studi, sente l’esigenza di trovare il suo posto e la sua etichetta.
Oggigiorno si parla sempre più di filosofia. Si aveva il problema che per anni è rimasta una materia astratta o accademica, insomma rivolta a pochi eletti. Pian piano si è andata a recuperare quella filosofia quotidiana che è tutt’altro che accademica (infatti se vogliamo nelle università si fa storia della filosofia). Quindi la materia è stata espressa sempre più in maniera divulgativa (ad esempio come il professore Matteo Saudino con BarbaSophia, oppure Benedetta Santini con Filosofia&Caffeina); si è avvicinata alle persone anche attraverso libri di “filosofia spicciola”.
Come ad esempio questo libro di Ilaria Gaspari, la quale utilizza le grandi scuole antiche per affrontare i problemi che si succedono nelle sue settimane. Ma potrei fare molti altri esempi.
La filosofia ha raggiunto anche le aziende, che richiedono sempre più laureati addetti alla selezione del personale oppure per la formazione dello stesso. E perché? Si potrebbe pensare che finalmente si è vista un’utilità in quello che i pensatori delle nostre origini credevano. Sicuramente un aspetto di conversione utilitaria c’è stato (con i suoi pro e i suoi contro soprattutto interpretativi), ma ritengo importante non dimenticare il bisogno sotteso in tutto ciò: la filosofia che lo si voglia o meno ci appartiene in quanto esseri umani al pari delle storie di vita perché risponde alle nostre domande di senso. Tutto giunge dal pensiero filosofico, perché ogni essere umano ha fame di sapere, che si trasmuta in bisogno di conoscenza religiosa, scientifica, sociale, tecnica, medica, eccetera eccetera.
Quindi la mia riflessione è forse ancora più doverosa in quanto, un’altra caratteristica dell’odierno, è che esistono filosofie per ogni cosa: filosofia della vita, filosofia della moda, filosofia del sorriso, filosofia della fotografia, filosofia delle serie tv (La filosofia spiegata con le serie TV – Tommaso Ariemma). In questo quindi non conta tanto quello che c’è dopo la preposizione, ma forse la preposizione stessa.
“Della” nella lingua italiana è una preposizione articolata (di + la) ed è nella categoria del gruppo di preposizioni proprie, ossia svolgono la specifica funzione: denominazione, argomento, quantità, causa, partitiva.
Insomma sia che parli di filosofia della comunicazione o di filosofia della narrazione, a livello di struttura linguistica grammaticale sto solo specificando di che cosa si occupa la mia filosofia. Mi rendo conto che sono disquisizioni che rasentano l’ossessività, però io ritengo che occupandomi proprio di questi specifici contenuti, che si rivolgono a quel concetto di cura di cui parla Borgna, devo soffermarmici. Anche per non cadere in quel marasma di proposte stile “chi prima arriva meglio alloggia”, chi ha l’idea migliore è vincente. Io agisco secondo quella comunione di intenti rispettosa del bene dell’altro, con uno scopo di promozione al benessere principalmente per se stessi e per la propria interiorità complessa.
Per tenere insieme filosofia e narrazione forse è sufficiente la semplice congiunzione, la cui funzione è quella di ponte. Per attraversare quel ponte serve una parola-valigia che è racchiusa nell’essenza della comunicazione: filosofia e narrazione agite in comunione dialogante per la ricerca del proprio disegno di vita.