Febbraio: giardino fertile di coesione

fiore di loto della rarità

Nel mese di febbraio la Filosofia della narrazione ha raggiunto la sua massima espansione in quanto materia esistente. Questo si è reso possibile grazie a una serie di interventi che venivano esplicitati al grande pubblico per la prima volta, a seguito di una lunga elaborazione, fatta di studi e ricerche.

Quello che però voglio sottolineare è come la filosofia della narrazione abbia preso il suo posto autentico in quanto materia e disciplina: un contenitore di pratiche finalizzate a costruire una nuova riflessione sul contemporaneo. Febbraio è stato mese motore di questo risveglio, perché lungo tutto il mese possiamo ricordare una serie di ricorrenze significative a livello sociale e se vogliamo anche antropologico.

Il 2 febbraio ricorre la Giornata dei Calzini Spaiati, il cui scopo profondo è quello di ricordarci come esseri umani uguali nell’essere tutti diversi, e accogliere questa ricchezza come qualcosa di generativo di risorse condivise. A seguire l’11 febbraio ricorre la Giornata del Malato e per concludere il 29 febbraio la Giornata Mondiale delle Malattie Rare. Significativo che sia stato scelto proprio il 29, giorno che non tutti gli anni si verifica perché avviene ogni 4 anni, quando cade l’anno bisesto.

Filosofia della narrazione: una postura gravida e puerpera. Dal mito di Pandora alla fiaba di Barbablù

Il giorno 3 febbraio, proprio successivo alla Giornata dei Calzini Spaiati, mi ha visto impegnata in una formazione destinata agli operatori di una Cooperativa Sociale, Città Futura, il cui obiettivo di esistenza si rivolge ai nidi d’infanzia. Per la prima volta ho parlato di fronte a 400 persone. Il filo conduttore è stato sul posto in cui abitare, definito a partire da un riflettere sulle parole che usiamo, le quali definiscono il nostro mondo e definiscono noi stessi all’interno di questo stesso mondo.

Per la prima volta sono riuscita a intrattenere un dialogo con così tante persone, nonostante non fosse scommessa facile. La filosofia della narrazione è entrata nei loro spazi e in qualche maniera ha iniziato a sortire quella trasformazione specifica del germogliare di un seme. Il tutto per attivare un’atmosfera di luoghi, parole, gesti, silenzi che potessero ricondurci a un concetto ecologico di comunità educante, ma anche personalissima, individuale.

Il lunedì 5 febbraio, successivo a questo momento così speciale, ho intrapreso la decisione di ricominciare a praticare lo yoga Kundalini, che per circa 1 anno e mezzo avevo sospeso. La prima lezione è stata proprio sulle parole, quelle autentiche che arrivano dal chakra del cuore prima di salire verso la gola e contattare il quinto chakra della comunicazione. Ancora una volta un rimando e una conferma di come riscoprire le parole possa aiutarci a riempirle di nuovi significati.

La parola è viva, ma è anche cosa, ossia oggetto: va riempita e si riempie oppure va svuotata e dunque si svuota. La parola è quella cosa che indossiamo ogni giorno, che muta con noi, che si adatta e che è elemento vitale e portante del vuoto che si trascina dietro. La parola è vaso e la sua cosalità di recipiente non risiede affatto nel materiale in cui esso consiste, ma nel vuoto che contiene. Ecco allora che offrire parole autentiche è responsabilità prima di tutto interiore, perché parlando offro prima di tutto me stessa e solo io posso scegliere come riempire il vuoto che possiedo, aiutando anche gli altri intorno a me a risignificare l’incontro di questi mondi vuoti/pieni di offerta.

L’ecopoetica come analgesico

L’offerta è allora un modello, un nuovo modello che recupera le nostre origini: uomini e donne che da sempre sanno comunicare. Siamo l’unica specie animale che si caratterizza per questo. E non parlo per forza di parole o di lingua, semmai di linguaggi. Posso anche essere muto o avere difficoltà di apprendimento o comprensione. Tuttavia il gesto, il codice di questa offerta trova la strada per narrare le storie di ognuno. Siamo gli unici esseri viventi che storicizzano la propria narrazione, la facciamo autopresente a noi stessi e agli altri, con il solo scopo di offrirci, di riempirci di quella rarità o specialità di cui siamo permeati.

In onore delle Malattie Rare sono stata invitata a tenere un contributo all’interno di un convegno tenutosi a Udine. Anche qui è tornato il concetto di comunità, una comunità che non può esimersi dal “farsi carico” di tutti, nessuno escluso e nessuno lasciato indietro. Ho esordito il mio intervento accennando agli studi di Fabrizio Benedetti – uno dei massimi studiosi al mondo dell’effetto placebo – il quale presenta un approccio rivoluzionario alla malattia e alla guarigione, testimoniando l’importanza delle suggestioni verbali positive per il loro potere di modificare il cervello e l’intero organismo. E apre a uno scenario innovativo in cui le parole di speranza, ingrediente cruciale di ogni terapia, diventano parte integrante della pratica medica.

Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci, e in questo modo si trasformano da suoni e simboli astratti in veri e propri strumenti che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. È questo il concetto chiave che sta emergendo, e recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina. Tutti noi speriamo in qualcosa. Ma il malato spera più di ogni altro. E sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole empatiche, di conforto, fiducia, motivazione.

Ecco allora perché questa ricorrenza del 29 febbraio è così importante: serve a ricordarci chi siamo. Una comunità che ha bisogno di parole nuove e che ha bisogno di speranza.

La nostra contemporaneità è stata definita con una caratterizzazione di società liquida (anche se mi piace di più parlare di società fluida), dove i confini e i riferimenti sociali si perdono e si allontanano.

Sulla lunghezza d’onda della speranza io credo invece che questo possa essere un’occasione o un’opportunità per un’ecologia che non si ferma al solo bianco o nero. E’ difficile vedere tante e troppe sfumature; si dice che troppe scelte comportano nessuna scelta. Io credo però che la rarità delle malattie ci mostra un nuovo punto di vista: le malattie rare sono un cospicuo ed eterogeneo gruppo di patologie umane (circa 7.000-8.000) definite tali per la loro bassa diffusione nella popolazione (colpiscono non oltre 5 per 10.000 abitanti nell’Unione Europea). Tuttavia se prese tutte assieme costituiscono un numero pari a un’intera nazione. Tra loro sono diversissime sotto tutti gli aspetti, terapeutico, sintomatico, ecc.

Anche loro confermano la nostra unicità comune dell’essere tutti diversissimi. Ecco allora che vedere più sfumature ha permesso di studiare nuove terapie, di aprire a nuove ricerche, di coinvolgere la comunità medico-scientifica anche fra chi ritenesse non fosse di fondamentale importanza occuparsene.

Per la prima volta a Verona sono stata testimone di direttori d’Azienda Ospedaliera usciti dalle porte dell’ospedale per incontrare il Comune e la comunità di famiglie e pazienti. Un incontro di discipline, di saperi, di vissuti e di colori. Un dialogo ecologicamente umano, perché tutti facciamo parte del tutto e non possiamo sottrarcene anche se illusoriamente cerchiamo di emarginare delle parti (come la natura, gli animali da ciò che è artificiale).

Allora la fluidità della società liquida può essere un limite che si trasforma in risorsa solo se la sappiamo guardare con la lente giusta. Ci siamo illusi di poter controllare ogni cosa, di dare senso a ogni cosa a partire da teorie, da norme, da confini. Certo questo ci serve per non smarrirci, ma talvolta queste teorie possono essere “contaminate” da nuovi linguaggi, possono essere riempite in quei vuoti che a causa della rigidità mentale dei secoli scorsi ci hanno fatto esclusivamente paura. Come ci insegna Pandora, il vaso che lei possiede contiene ancora la speranza; è proprio quella che lei vuole offrirci. La speranza è una direzione, non uno scopo. La speranza non deve paralizzare, ma offrire nuovi desideri, nuove scoperte, nuove parole per nuovi mondi. Essere fluidi o flessibili, non significa lasciarsi travolgere dalla tormenta, semmai avere il potere della canna di bambù che è forte in quanto riesce a piegarsi al vento, non lasciandosi abbattere dalle intemperie ma permettendo che la tempesta gli scivoli addosso senza spezzarla (Confucio, “LA VERDE CANNA CHE SI PIEGA NEL VENTO È PIÙ FORTE DELLA POSSENTE QUERCIA CHE SI SPEZZA NELLA TEMPESTA“).

Che possa la canna di bambù (assieme al fiore di loto, simbolo di purezza, rinascita e forza vitale, che rappresenta la resilienza e la speranza, perché pur nascendo con radici fangose esplode candido) essere simbolo della rarità, ma anche della nostra contemporaneità; così come ancora una volta l’approccio alle malattie rare ci insegna un modello per rafforzare l’impegno verso un’assistenza più inclusiva e centrata sulla persona.

La società liquida può insegnarci nuovi orizzonti centrati sulla persona, sul suo vuoto dell’offerta, che non genera più insicurezze, bensì nuove narrazioni e nuovi linguaggi a misura e tempo di ogni seme che diventa germoglio e può trasformarsi in fiore.

Siate flessibili, siate fertili; siate autentici, siate candidi, indipendentemente dal traguardo.

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