Dal gioco al mito: gioia dimenticata e bisogno di adultità

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Ascolto. Smarrimento. Ipercontrollo. Iperstimolazione. Empatia. Paura.

Queste sono le parole che da questo weekend di Tocatì mi porto a casa, e oltretutto non smettono di frullarmi nella testa per trovare una collocazione di pensiero.

Il Festival è ideato e organizzato dall’Associazione Giochi Antichi (AGA) in collaborazione con il Comune di Verona, Area Cultura. L’Associazione ha realizzato questo evento di cultura ludico tradizionale per la prima volta nel 2003 e dopo poco è diventato un punto di riferimento internazionale.

Il gioco è tema a me assai caro, che negli ultimi anni ho voluto inserire nell’approfondimento dei miei studi. Il gioco è prima di tutto narrazione. Al di là che si usa molto spesso il fisico, mentre giochiamo ci raccontiamo una storia. In qualunque gioco le regole sono parte della narrazione, la narrazione stessa è fatta di regole.

Vi chiederete allora perché parlo di regole accanto alle parole chiave che ho espresso poc’anzi.

Cercherò di condividere il mio bisogno di “riflessione”. Le stimolazioni di queste due giornate di Tocatì partono proprio da due emozioni fondamentali per il nostro sistema interiore: la gioia e la paura.

Partecipando a un incontro di gioco con i libri mi è stato chiesto di recuperare un’immagine che rappresentasse la “gioia che hai dimenticato”. Una gioia bambina, perché si pensa che il tempo relegato al gioco sia soltanto quello cosiddetto ‘bambino’. Per certi versi è vero, il gioco è del bambino o della bambina perché è funzionale per imparare a stare al mondo, imparare a conoscerlo questo mondo. Tuttavia viviamo in un universo che gioca, che lo si voglia o meno, le nostre storie, anche dei nostri antenati partono da un funzionamento giocoso: le regole comunitarie, i ruoli, le storie che si intrecciano, i bisogni, i sentimenti che provoca tutto questo. Infatti nella mia epoca, se ci pensiamo a fondo, siamo noi adulti che cerchiamo quasi con bramosia il recupero dell’arte del giocare. Il Festival stesso ne è un esempio perché si è fatto conservatore di giochi antichi, per ricordare al bambino o alla bambina che siamo stati come il gioco abbia sempre fatto parte della nostra esistenza.

Temo però che questo sia anche un limite, perché ci rivolgiamo sempre all’adulto parlando al posto dei bambini e delle bambine odierne. Mi viene da rispondere che è inevitabile farlo.

Nelle generazioni che si sono succedute, c’è stato qualche passaggio che ha fatto cambiare radicalmente il modo di vedere il mondo e gli altri. E non mi basta come risposta la tecnologia, tanto meno che i miei genitori giocavano in cortile mentre al giorno d’oggi gli adolescenti non sanno più farlo.

Da dove è giunto questo bisogno del virtuale? Possiamo davvero giustificarci dietro al fatto che la tecnologia ha preso potere su di noi? Possiamo ritenerci vittime di qualcosa che abbiamo creato e ha finito per “comandarci”?

Ecco a me non basta tutto questo, sento che mi manca un passaggio per trovare collocazione a quelle parole che all’inizio dell’articolo ho fissato come rilevanti e impattanti per me.

Le emozioni

Quando ho narrato della mia gioia dimenticata ho fatto riferimento a un ricordo richiamato dall’albo illustrato che mi ha catturata (Ti aspetterò di Makiko Toyofuku, tradotto da Laura Imai Messina).

La storia ha la particolarità di avere come voce narrante una piccola pecora peluche che è stata dimenticata da una bambina sulla panchina. Questa pecora racconta delle sue avventure durante questa attesa di ritorno della bambina, perché è sicura di non essere stata abbandonata, ma solo dimenticata; e anzi è assai preoccupata per la bambina che probabilmente sarà in pensiero di non averla più con sé. Senza svelarvi il finale, questa storia mi ha fatto pensare alla me di 7 anni che sul Lago di Tenno ha dimenticato per errore la sua borsina con dentro una balenottera peluche che mai più sono riuscita a ritrovare. E quella balenottera non è mai svanita dai miei pensieri e dai miei ricordi. La mente ha la sua fotografia da allora e per lungo tempo ha continuato a cercarla, invano.

Quando ho condiviso questo ricordo mi è stato subito fatto notare che collegavo l’emozione della gioia dimenticata a qualcosa di triste e che quindi la gioia può essere anche tristezza. Questa cosa mi ha lasciata molto spiazzata, perché per me non era affatto un ricordo dal sapore triste. Così la mia riflessione successiva è stata: ma perché essere bambini ci appare sempre così spensierato e semplice? Perché ancora una volta noi adulti ci dimentichiamo quanto fosse grande il dolore di quella bambina che ha smarrito il peluche a lei più caro, pensiamo sempre che i problemi adulti siano più importanti. L’infanzia e l’adolescenza non sono solo spensieratezza e gioia; ce lo insegna anche il film d’animazione Disney Pixar Inside Out (allerta spoiler), che i ricordi più belli la protagonista scopre essere quelli che hanno un vissuto di tristezza e di gioia assieme, non solo monocolore.

Ecco allora che questa riflessione mi porta alle impressioni ricevute dal secondo incontro a cui ho partecipato. Si parla spesso che la generazione dei miei genitori sapeva giocare in cortile e stare all’aria aperta, in maniera spontanea riusciva a capire bene o male come stare al mondo. Oggi la generazione dei miei figli sostanzialmente (anche se attualmente io non ne ho ancora, ma molti miei coetanei sì) è mancante di questa capacità, ma soprattutto ha bisogno di essere rieducata alle emozioni, perché è venuta sempre meno l’empatia.

Questa “soluzione” non mi soddisfa perché se io sono stata cresciuta da genitori che mi hanno trasmesso un certo modo di giocare, com’è possibile che non abbia proseguito su questa linea se a quanto pare era così ‘sano’? Badate bene, dal basso della mia minuscola formazione non voglio dare soluzioni alternative al problema. Mi sto liberamente interrogando su un problema che mi tocca da vicino, come professionista, ma anche e soprattutto come persona e come – spero – futura mamma.

Io credo che le frasi “una volta si stava meglio” – esasperando e generalizzando, non che all’incontro sia stato detto questo – sono davvero superficiali e bisogna farsi aiutare dalle narrazioni per recuperare da dove siamo partiti, per giungere sino a qui.

L’ascolto della paura bambina nell’adulto di oggi

La storia arrivata attraverso la voce dei miei nonni racconta che molto spesso i matrimoni erano combinati e che la donna inconsapevolmente subiva violenza sessuale perché “serviva” a fare figli. Non serve andare molto indietro. E quindi non mi stupirei tanto che oggi una ragazzina racconti di aver fatto sesso la prima volta piangendo e il ragazzo indifferente ha continuato. Siamo andati avanti tecnologicamente parlando, ma abbiamo davvero capito come stare al mondo? Perché se oggi io genitore vedo smarriti e soli i miei figli e le mie figlie, forse è perché loro mi fanno da specchio. Rispecchiano quei traumi che mi sono derivati dall’apparente spensieratezza del giocare in cortile.

Non siamo forse cresciuti con la paura di noi stessi? E non l’abbiamo forse tradotta con un ipercontrollo e un’iperstimolazione, oltre che con una violenza esuberante, perché anche allora da bambini ci siamo sentiti soli e non abbiamo avuto le giuste strategie per far fronte al mondo? Io credo proprio di sì. Non ritengo ci sia stato un cambio così radicale. Un tempo non si parlava di emozioni o di educazione alle emozioni, le emozioni erano da deboli. I panni sporchi si dovevano lavare in casa. Oggi invece occasioni di ascolto professionale vengono offerte, a scuola o dopo scuola.

Allora cos’è che manca davvero? Cosa è accaduto nel passaggio dal giocare in cortile al giocare in mondi virtuali? Qual è il vero bisogno intrinseco che non riusciamo a vedere e manifestare?

Siamo passati da avere pochissime occasioni di scelta ad avere eccessive opzioni, eppure nulla è cambiato se non appunto addirittura peggiorato.

Parliamo sempre più dell’importanza della Pedagogia, dell’importanza e del ruolo della scuola. Ma non ci stiamo forse ponendo le domande sbagliate? Non stiamo rischiando di cadere in una banalizzazione?

Ecco allora che sulla scia di tutto questo, assieme alla mia amica e collega Ana Gutierrez, riprenderemo l’arte del giocare attraverso la narrazione di sé in un percorso formativo aperto a educatori, insegnanti, studenti, lettori o semplicemente curiosi; senza avere la presunzione di rispondere a queste domande così importanti e anche così intricate. Ciò che desidero di più è recuperare la prima parola: ascolto. Credo che l’essere umano pur con modalità espressive differenti, dettate dal momento culturale in cui è cresciuto, non abbia dato ascolto al contenuto della propria paura più grande: diventare adulto.

Se chiedessi a voi cosa significa diventare adulti, mi sapreste rispondere?

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