Da quando sono venuta a conoscere il libro Il cervello degli adolescenti di Frances E. Jensen, Amy Ellis Nutt, non ho più potuto fare a meno di pormi questa domanda. In verità l’educazione dell’adulto mi ha da sempre appassionata, soprattutto da quando finalmente gli studi e la letteratura si sono resi conto che il nostro cervello può modificarsi ed essere allenato fino all’anzianità inoltrata (permettendomi di progettare percorsi laboratoriali per adulti davvero coinvolgenti).
Siamo l’unica specie vivente che non nasce già completamente evoluta ed autonoma, ma ha bisogno di fasi di sviluppo accompagnate, supportate e direzionate. Un altro aspetto interessante è che finalmente anche in ambito pedagogico sta nascendo una nuova cultura, la cultura “neuro”, che riconosce che l’essenza degli esseri umani, ciò che imparano e memorizzano, è un prodotto del funzionamento del cervello. Cercare di insegnare senza sapere come funziona il cervello sarà come progettare un guanto senza aver mai visto una mano, sostiene Francisco Mora (2019).
Questa riflessione mi ha profondamente colpita perché nel nostro contemporaneo ritengo sia sempre più difficile rendersi conto di chi si sente compiutamente adulto. Sempre più siamo di fronte a cinquantenni che si vestono e si atteggiano come trentenni, e trentenni che non riescono a vedere un futuro davanti a sé, o addirittura usare la parola “vecchio” è pari a un insulto, soprattutto se rivolta a un settantenne.
Anche se ad oggi l’aspettativa di vita si è alzata esponenzialmente, non significa che il nostro cervello “subisca” ancora quelle tappe evolutive per cui è concepito. E possiamo anche dire che se torniamo indietro di qualche generazione, si diventava adulti quando ancora in realtà si era adolescenti. La maggior parte degli studi mostra come sia fisicamente, sia mentalmente, che si è adolescenti fino ai 25 anni (la vista si modifica fino ai 25, il corpo non è ancora del tutto sviluppato e pare che fino ai 25 anni permane la tua costruzione di percezione del sé).
Il funzionamento biologico non è mai andato di pari passo con i tempi imposti dalla società, o meglio, la società non si è mai fino in fondo strutturata al servizio dei nostri tempi evolutivi cerebrali.
Il presente odierno ha reso poi ancora più complicata la situazione: moltissimi giovani rimangono a vivere in casa con i genitori fino ai 40 anni inoltrati, il lavoro ti permette autonomia e stabilità forse quando i tuoi genitori sono in età da pensione, ma ancora si trovano a lavorare pur avendo più di 60 anni. E gli adolescenti? Gli adolescenti sono gli unici a cui apparentemente è stato dato più tempo. Ma appunto è un’illusione apparente. Ciò che ha allungato la loro adolescenza non è il rispetto dei tempi evolutivi, ma il controllo dei genitori su questi ultimi. Fino a 22 anni il genitore non permette al figlio o alla figlia di cercarsi casa, un lavoro, di costruirsi dei nuovi punti di riferimento supportati indubbiamente dalla famiglia. Però, paradossalmente, dal lato opposto gli si chiede di stare da soli, di arrangiarsi perché gli adulti devono lavorare e non possono concedersi alle emozioni. Non hanno tempo da perdere tra frivolezze depressive, confusioni o bisogni di ascolto e comprensione.
Oggi ho 30 anni compiuti, mi occupo di educazione e di benessere rivolto a tutte le fasce d’età; sono andata via di casa per scelta a 18 anni, ho iniziato a lavorare per mantenermi gli studi e ho avuto il primo vero contratto a 22 anni. Da quest’anno ho visto le forme del mio corpo cambiare, sentirmi più formata fisicamente e desiderosa di crearmi una famiglia. Tuttavia quando sento il “controllo” di alcuni genitori verso i loro figli ventiduenni definiti “adolescenti” faccio fatica a riconoscermi in questa versione.
Io ho dovuto crescere in fretta e forse la piena adolescenza l’ho vissuta poco, poca spensieratezza, tempo solo per programmare, progettare e procurarmi sostentamento. Tuttavia ora mi rendo conto di come in parte sia stata comunque ancora adolescente fino all’altro ieri.
Oggi mi guardo allo specchio e vedo il mio fisico più pieno, più abbondante. Anche certi miei atteggiamenti si sono modificati e sento alcune fatiche che prima erano piccolezze. Addirittura alcuni valori sono mutati. Non so se questo significa essere diventati adulti, ma sicuramente è vero che la percezione di me non corrisponde più a qualche anno fa.
La domanda che mi pongo non si può esaurire in una risposta scientifica o sociologica, tuttavia credo che si possano fissare alcuni punti chiave per orientare e fare ordine.
A livello etimologico “adolescente” e “adulto” hanno la stessa origine, il primo significa in via di crescita, il secondo corrisponde al participio passato “cresciuto”. Questo significato è limitante da un punto di vista educativo, ma non cerebrale.
Il cervello normo dotato riconosce il passaggio da una fase evolutiva all’altra, e non chiede il permesso per farlo. Da un punto di vista educativo invece possiamo dire che non siamo mai davvero adulti, perché possiamo sempre rinnovarci, allenare le nostre funzioni, cambiare valori, credenze, condizioni, eccetera.
Quindi ritorno alla frase iniziale che per educare bisogna conoscere il cervello. L’educazione è strettamente connessa al contesto socio-culturale, ma non può nemmeno escludere il nostro funzionamento interno. Anzi forse se lo iniziassimo a fare rallenterebbero anche i nostri tempi interiori ed esteriori, senza procurare quella eccessiva dissonanza tra un sistema e l’altro.
A 30 anni sei in ritardo se non hai già una casa e un lavoro stabile, ma a 25 sei ancora troppo giovane per fare pensieri compiuti e a 60 anni sei ancora nel pieno della fioritura per poterti concedere momenti più distesi. A 80 anni devi essere in grado di essere ancora pienamente autosufficiente perché se no sei un peso per la società e la famiglia. Senza aggiungere che a 1 anno ti viene chiesto di saper camminare, parlare, rotolarti e che se non lo sai fare meriti di essere diagnosticato per qualche “ritardo” nello sviluppo.
Quando chiedo a un adulto: da che momento si è adulti, ci sta che possa rispondermi che non c’è risposta, ma non ammetto nemmeno la facilità con cui questa domanda viene surclassata. Credo che il motivo per cui la fase adolescenziale risulta così controversa è proprio legato al fatto che come esseri umani siamo alla ricerca di una definizione successiva. Gli animali da cuccioli passano ad essere completamente formati e istintivamente funzionali; invece noi?
E’ vero che possiamo continuamente e costantemente metterci in discussione e cambiare rotta, ma dobbiamo anche ricordarci di rispettare le nostre fasi evolutive, perché sennò ahimè lo smarrimento è dietro l’angolo, e ci sentiamo un giovincello nel corpo di un anziano. Per lungo tempo mi sono sentita un’adulta nel corpo di un’adolescente, forse perché permettevo anche alla società di definirmi secondo quei canoni troppo confinanti. Oggi accolgo questi miei 30 anni e mi osservo.
Da che momento sarò adulta allora? Non lo so, ma nel mio lavoro mi impegnerò a includere il contesto, la società e il cervello della persona che mi troverò davanti. Questa è la vera forma di rispetto che il lavoro di promozione alla fioritura possa svolgere. La complessità ci appartiene, le domande ci appartengono, ma anche i nostri tempi sono prioritari. Nessuno ha il diritto di portarceli via, rallentandoci o accelerandoci.