La mia storia

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Premessa

Sono originaria del Piemonte e mi sono trasferita nella città di Verona all’età di 18 anni per seguire i miei sogni. Nel 2012 ho iniziato la laurea triennale di Scienze della comunicazione e mi sono subito appassionata agli aspetti filosofici della comunicazione e del linguaggio. Proprio per questo nel 2015 decido di iscrivermi alla laurea magistrale di Scienze filosofiche. Fortuna vuole che il percorso proposto a Verona si rivolgeva anche all’aspetto della relazione di cura e incontrai due persone per me importanti nel percorso formativo, che mi hanno aiutata ad essere quella che sono oggi: la professoressa Linda Napolitano, storica della filosofia antica specializzata in medicina narrativa, e Marco Dalla Valle, infermiere e biblioterapista dello sviluppo. Il percorso è poi proseguito nel 2018 con il master di I livello in Counseling Educativo presso l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia Mestre.

Durante la mia formazione ho avuto due esperienze professionali particolarmente caratterizzanti per il mio sviluppo di competenze e la mia crescita personale di conoscenze: il Servizio Civile, con successivi progetti, presso il S.A.O. Don Calabria di Verona (Servizio Assistenziali Occupazionali per adulti con esiti da cerebrolesioni acquisite) e la borsa di studio presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, convertita poi in contratto a tutti gli effetti sotto l’Associazione Italiana Sostegno Malattie Metaboliche Ereditarie, dando così continuità al Centro cura dell’UOS Malattie Metaboliche Ereditarie nel reparto di Pediatria dell’Ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento.

Attualmente sono docente a contratto di filosofia della narrazione presso l’Università degli Studi di Verona al Master I livello di Biblioterapia e proseguo l’aggiornamento professionale nel Baccalaureato di Scienze pedagogiche in Progettazione e gestione degli interventi socio-educativi all’Istituto Universitario Salesiano di Venezia Mestre.

Quindi come si inserisce la filosofia della narrazione all’interno di questo percorso di studi?

La filosofia incontra la narrazione: la filosofia della narrazione

Una prima definizione abbozzata nasce quasi per caso, durante un aperitivo con colleghi. Si stava condividendo alcune letture e articoli e il mio responsabile mi dice di non abbandonare le mie due nature: quella filosofia e quella narrativa. Così formiamo “filosofia della narrazione”. Tuttavia la mia sete costante di ricerca e la mia determinazione nello studio non mi hanno fatta fermare lì. Nei successivi anni recupero un libro di testo che avevo incontrato durante l’università, il quale porta scritto il sottotitolo proprio di filosofia della narrazione. Da quel momento ho cercato e voluto prendere in mano la poca teoria esistente su questa disciplina e trasformarla in vero e proprio metodo pratico. Tale libro è stato di recente ripubblicato (marzo 2022) dopo anni che era fuori edizione.

Al fine di comprendere quale apporto può dare la filosofia alla narrazione e viceversa – spiegando l’incontro possibile, ma necessario, fra due realtà apparentemente così lontane – è utile recuperare l’etimologia di alcuni concetti, educazione, terapia e cura. Formarsi e curarsi sono attività collegate. Il termine educazione (educare da educere, tirar fuori, allevare e allenare) è da ricondursi al termine maieutica riferito all’arte greca della levatrice, colei che aiutava le donne gravide a partorire. L’interrogante, nel dialogo socratico, può/deve esercitare tale arte, aiutando gli interrogati a partorire proprie idee e risposte ai problemi che vengono posti, e guardandosi dal proporre o imporre loro suoi problemi, o ancora meno, sue risposte. Deve dunque condurre non a fornire significati, bensì a delle domande e delle strategie funzionali alla scoperta autonoma e condivisa del proprio sapere. Tuttavia c’è un altro termine che definisce l’atto educativo, ed è paideia, termine greco, il cui significato originario equivaleva proprio a “educazione”. Successivamente però assunse il valore di “formazione umana”, in quanto il raggiungimento dell’essere Persona è frutto di un processo continuo, mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, ma attraverso cui questi realizza pienamente se stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé e in armonia col mondo.

Altro termine spesso discusso e di fondamentale recupero è terapia: la biblio-terapia viene definita attraverso un metodo che passa per precise fasi di sviluppo, il cui obiettivo è quello di accompagnare l’utente nella propria personale fioritura interiore e solidale, attraverso l’utilizzo creativo e ragionato dei libri o di qualsiasi supporto e strumento narrativo. Questo, talvolta, procura qualche incertezza perché nei tempi odierni la terapia non viene intesa in tal senso, ma piuttosto in qualcosa di più medico specialistico o psicologico clinico. La parola terapia, infatti, ha origine greca e deriva dal verbo therapeyo, il quale ha il significato principale di assistere, stare accanto. Sia la  biblioterapia, sia la maieutica, sia l’educazione si fondano sull’accompagnare l’altro con cura: emerge dunque l’idea di attenzione rivolta alla persona, spesso in ottica preventiva, o addirittura in ottica di riconoscimento di proprie risorse interiori; proprio come ci insegna il termine inglese care (diverso da cure, il quale riprende il senso clinico espresso poc’anzi, con carattere quindi più ripartivo o di rimozione di un danno): interessarsi, preoccuparsi, prendersi cura della sfera più vulnerabile della persona, al fine di promuovere la fuoriuscita di risorse interiori sane, sempre contattabili nella persona, anche in casi di difficoltà elevata.

La filosofia e la narrazione, ci permettono di andare a sviluppare ulteriormente le potenzialità della biblioterapia proprio perché sono strumenti che si rivolgono allo stato dell’Io adulto, nel qui e ora, del dialogo narrativo; il valore aggiunto consiste nell’utilizzare determinate narrazioni, come i miti e le fiabe moderne, per andare ad accompagnare le persone non solo a identificarsi nelle parole e nelle emozioni di altri, ma a recuperare le proprie origini come esseri umani portatori di storie.

Tutti noi ci poniamo domande di senso, a cui nei secoli la filosofia ha cercato di dare risposta, e ci troviamo narrati nei libri che incontriamo e leggiamo.

Per fare questo la mediazione dialogica incontra la narrazione: un primo esempio di tale incontro è rappresentato dalla tragedia greca, come descritta da Aristotele nella Poetica. L’azione tragica che si riflette nello scambio dialogico e nelle verità narrate dei personaggi è un confronto che riattiva le emozioni e questo confronto viene definito krisis, che permette proprio l’espressione dell’intensità della sofferenza e la sua interrogazione. La caratteristica della tragedia è di permettere ai protagonisti di instaurare un dialogo con se stessi e, in un secondo tempo, di trovare una distanza capace di costruire una diversa visione della propria situazione individuale. L’identificazione, la catarsi e l’introspezione costituiscono le tre fasi del metodo psicodinamico della biblioterapia.

La scoperta e la giustificazione della catarsi costituiscono, secondo Jauss, l’eredità più stimolante della teoria poetica antica che ha dato una risposta concludente alla questione del perché la visione delle vicende più tristi procuri un piacere profondo […]. Jauss analizza poiesis, aisthesis, katharsis come forme della produzione artistica e della lettura. L’esperienza estetica non si esaurisce però nell’aisthesis, ovvero il vedere che fa conoscere, o nell’amnesis, cioè il riconoscere mediato dal vedere: lo spettatore può venire coinvolto, lasciando libero corso alle passioni ridestate, e sentire poi un senso di sollievo come se avesse ottenuto una guarigione. È quest’ultima parte la katharsis. Quindi la tragedia è in sé già terapeutica, senza il bisogno di affiancare al termine la parola che ne ribadisce l’obiettivo come nel caso della biblioterapia (biblios + therapia, ossia terapia attraverso i libri).

L’incontro di filosofia e narrazione è mosso proprio da questo desiderio di recupero del potere curativo delle arti narrative, rivolgendolo all’essere umano in tutto il suo complesso. La cura per il particolare e l’attenzione verso l’accidentale rappresentano le strategie per raggiungere il vero obiettivo della filosofia della narrazione: prendersi cura dell’unicità delle persone e delle storie di vita. La verità raggiunta tramite la filosofia della narrazione ha dunque valore particolare, proprio perché è esito di un cammino, della trasformazione del nostro sentire e conoscere ch’esso ha implicato, della sofferenza e fatica che ci ha imposto e insegnato a sopportare, della “purificazione” che ha indotto in noi.

Il gusto della scoperta: la biblioterapia filosofica e il counseling educativo

Nel dialogo “socratico” la dimensione dell’interlocutore è essenziale. Impedisce al dialogo di essere un’esposizione teorica e dogmatica, e lo costringe a essere un esercizio concreto e pratico, precisamente perché non si tratta di esporre una dottrina, ma di condurre un interlocutore a un determinato atteggiamento mentale: è una lotta, amichevole ma reale.

Ecco come la filosofia ci permetta già di sottolineare una parola chiave: la postura dell’interrogante, che per dirlo nel linguaggio socratico è il “maieuta”. Questa postura permette di far entrare in contatto altre due realtà: il formarsi e il curarsi sono sì attività collegate, ma oltre questo sono il fondamento dell’educazione così come l’abbiamo intesa poc’anzi, ossia un condurre fuori, ma anche un accompagnare e un sostenere, affinché l’educando o colui che si pone domande di senso possa trovare e scoprire da sé ciò che è buono e soprattutto vero per se stesso.

Il metodo socratico comporta inoltre uno stato di meraviglia interrogante di chi si pone domande generali di senso e passa attraverso vari stati d’animo, poiché patisce la sofferenza fisiologica del parto di una risposta. Questa pratica non è agevole né tranquillizzante. Essa comporta, sul piano cognitivo, incertezza, confusione, instabilità e, in sede emozionale, fatica, ira contro se stessi, vergogna. Esige, per essere portata avanti, nonostante tale stato emozionale “negativo”, un infinito amore per la sapienza e la pazienza, cioè la capacità di attendere e lasciar maturare le cose, l’intervenire e far domande a tempo debito e con chi sia in grado di ascoltare.

La parola è ciò che ci rende umani, è l’elemento base che ci permette di definire e di definirci costantemente, rinnovando il nostro mondo e la nostra vita; la parola permette il vero riconoscimento di sé e dell’altro, permette di esprimere e descrivere le proprie emozioni e i propri sentimenti; la messa in parola della propria esperienza permette quella consapevolezza dei propri pensieri utile all’ascolto autentico.

Dialogando e narrando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della propria identità personale e fanno così la loro apparizione nel mondo umano. Nel dialogo ognuna delle parti abbandona la sua visione e la pretesa precedente, e la soluzione cui si giunge è condivisibile perché pare ad entrambi l’unica percorribile, a ognuno perfino più della sua visione/soluzione precedente. Non è previsto che ci si debba compenetrare emotivamente nella storia raccontata se pur sofferta dalle parti. Tantomeno è opportuno fingere di emozionarsi, poiché ogni forzatura può essere controproducente. Ma saper modulare un proprio linguaggio non verbale è una delle basi del buon mediatore. Trasmettere interesse professionale, saper ascoltare, e creare un clima costruttivo, sono prerogative del metodo che accompagna verso l’accordo.

Pensare con l’altro o la confutazione benevola significa connettere dei pezzi di verità posseduti da ognuno: questi, strofinati uno contro l’altro come pietre focaie, possono far brillare il fuoco del vero, purché la postura interiore che guida ogni passo del dialogo, e chi vi partecipa, sia quella effettivamente connotata. Il maieuta è un mediatore fra l’interrogato e la sua vita, anch’egli dunque, ponendo domande, lo spinge a interrogarsi su come vive, su quanto sa e sente, lo introduce al rito di radicale trasformazione che solo ottempera alla prescrizione delfica del conoscere se stessi, di prendere cognitiva distanza da sé per potersi vedere con occhi nuovi.

È bene soffermarsi anche sull’incontro dei due metodi veri e propri, ossia da un lato quello del dialogo socratico e dall’altro quello psicodinamico della biblioterapia. Ciò che li rende comuni è sicuramente il momento catartico centrale, nel quale la persona o l’educando prende le distanze e nello stesso tempo si sente parte di un linguaggio comune che permette di rinnovare la sua personale esperienza; tuttavia ci sono dei passaggi chiave che devono essere messi in evidenza.

La domanda maieutica ha come fine il già accennato oracolo delfino del “conosci te stesso”; così come la narrazione risponde al quesito di ogni essere umano “chi sono io”. Quando incontriamo l’altro o quando incontriamo una narrazione altra, ritroviamo anche sempre una porzione di noi stessi. Proseguendo, l’arte maieutica permette l’esprimere fuori di una verità, e se vogliamo va ad incontrare il bisogno prettamente umano di necessaria “identità da confessare”. Questo perché sia che dialogo con me stesso o con altri, sia che leggo per me stesso o con altri, non sarò mai completamente solo, andranno sempre a presentarsi tutte le realtà pregresse che mi hanno condotto fino a quel momento, tutte quelle porzioni di me che esistono dentro e fuori di me.

Ecco allora che si realizzano due momenti chiave che permettono la vera accensione tra filosofia e narrazione, amplificandosi reciprocamente: la domanda filosofica, superato il momento catartico, riconosce consapevolmente che non si possiede un’unica risposta alla domanda di partenza, bensì almeno due, opposte e contrarie fra loro, ma entrambe significativamente importanti. Si verifica quindi un’aporìa dialogica, quella sensazione che sta fra il desiderio di movimento e costante ricerca di senso, e quella sofferenza che si percepisce quando si scopre che nulla è definitivo. Allo stesso modo è l’identità da narrare, un senso di incompiutezza che ribadisce una necessaria postura alla vita fatta di accettazione e di pathos (da intendere sempre con il significato etimologico, non solo di sofferenza, ma di prisma emotivo ed esperienziale). L’identità da narrare, inconsapevole ma reale, ha l’obiettivo di rendere memoria, di far conoscere, di condividere, di mettere insieme qualcosa che prima era solo in potenza.

Narrando una storia, questa diventa atto di significati rinnovati e integrati di verità nuove, restituite grazie all’incontro e al dialogo con l’altro, ossia diviene una comunicazione biografico-solidale; proprio come Ulisse, che si imbatte nel racconto della sua storia, “in una delle scene più belle dell’Odissea, egli siede come ospite alla corte dei Feaci, in incognito. Un aedo cieco intrattiene col suo canto i convitati. Canta della guerra di Troia, narra di Ulisse, delle sue imprese. Ed egli, nascondendosi il volto nel gran martello purpureo, piange. […] Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato”. Si verifica quindi la natale pulsione all’autoesposizione, perché la facoltà umana dell’azione ha infatti il compito di rivelare l’unicità dell’identità personale. “L’attivo rivelarsi agli altri, con atti e parole, offre uno spazio plurale all’identità, e perciò confermandone la natura esibitiva, relazionale e contestuale” in una dialettica continua e alternata fra attore e spettatore, proprio come nel caso di Ulisse, il quale riconosce la sua storia come accaduta nel momento in cui la ascolta raccontata da altri. Di conseguenza l’obiettivo principale è quello dell’accompagnamento alla narrazione personale in ogni fase, per permettere di ri-scrivere una narrazione non più individuale bensì integrata da tutti i punti di vista, contribuendo allo sviluppo e alla ricostruzione della storia passata, presente e futura, di sé e degli altri: prima di incontrare l’altro mi prendo cura di me, mi conosco e nel momento dialogico con l’altro vivo l’aporìa catartica del mio e altrui vissuto, oltre che delle mie e altrui emozioni.

La filosofia della narrazione è perciò da intendere e utilizzare come un modo di vivere, come un’arte della vita, come una maniera di essere e di esistere nel mondo, che deve essere praticata ogni istante, che deve trasformare tutta la vita. La filosofia della narrazione si presenta come una terapia destinata a guarire l’angoscia: una trasformazione del proprio sentire e una cura costante di esso.

1) L’etimologia di questa parola viene ricondotta al verbo greco krino, con cui si indica il saper distinguere, prendere una scelta o, più in generale, una situazione di cambiamento. Nel caso qui utilizzato si vuole sollecitare il risvolto positivo di una crisi, quel passaggio dinamico di attraversamento, sì sofferto, ma rivelatore di nuove dinamiche; quindi una propensione ancora una volta del proprio sviluppo interiore, un gettarsi in avanti, un fiorire rigoglioso, e non un’azione passiva di sola osservazione del momento. Il compimento di una scelta necessariamente attiva.
2) Il termine aporìa (dal greco ἀπορία, passaggio impraticabile, strada senza uscita), nella filosofia greca antica indicava l’impossibilità di dare una risposta precisa ad un problema, poiché ci si trovava di fronte a due soluzioni che, per quanto opposte, sembravano entrambe valide. Per quanto riguarda l’aporìa socratica a cui io qui faccio riferimento, si è intesa anche una fase della maieutica di Socrate, volta alla liberazione dal falso sapere, cioè dalla convinzione che le proprie opinioni siano delle verità certe. L’interlocutore di Socrate infatti di fronte alle insistenze del maestro che continuamente gli chiedeva cosa fosse quello di cui si stava discutendo, che lo spingeva cioè a tentare delle definizioni sempre più precise dell’argomento della discussione, alla fine entrava nell’aporìa, nella strada senza uscita, dichiarando la sua incompetenza nel dare una risposta definitiva e precisa, e riconoscendo quindi che la sua certezza iniziale era insussistente. 

Per quanto riguarda invece il termine catarsi (dal greco katharsis, κάθαρσις, “purificazione”), mi riferisco alla catarsi tragica espressa da Aristotele, ossia una tecnica per avvezzarsi a sopportare i mali e il dolore che potranno colpire lo spettatore in futuro, vivendo questo durante una rappresentazione di una tragedia teatrale. Nel processo psicodinamico della Biblioterapia, la catarsi viene recuperata nel medesimo modo: infatti, uno degli studi in cui la catarsi svolge un ruolo centrale, è la tesi di Caroline Shrodes presentata nel 1949. Fu la prima ad analizzare e sistematizzare concretamente il metodo biblioterapico suddividendolo in tre principali fasi: identificazione, catarsi e introspezione. L’identificazione è la fase iniziale e prevede l’immedesimazione del lettore con i personaggi della trama. È fondamentale che il lettore si rispecchi in ciò che legge e che trovi delle affinità con un personaggio, immedesimandosi a tal punto da iniziare a pensare cosa farebbe al suo posto. Segue la catarsi, che per Aristotele significa la purificazione dell’anima, interpretata più come un distaccamento dal pensiero precedente del lettore per far spazio ad un pensiero completamente innovativo. Nel momento in cui questo cambiamento si stabilizza e si mantiene nel tempo, parliamo di introspezione. Nello specifico l’aporìa catartica, nell’idea qui espressa, va a coinvolgere tutte le sfere del nostro essere, la sfera cognitiva, emozionale e corporale, permettendoci di riconoscere che il copione di vita o la narrazione possono sempre essere modificati, integrati e mai veramente definitivi.

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